sabato 15 ottobre 2011

Indigniti contro la Metafisica Finanziaria


A partire dagli anni ottanta, quando Margaret Thatcher aprì in Inghilterra la stagione del neoliberismo, ci viene ripetuto continuamente, con ossessiva costanza che c’è bisogno di mercato, del mercato, di più mercato. Il mercato deve essere libero, libero di privatizzare i ricavi dividendoli agli azionisti, e di nazionalizzare le perdite facendole ricadere sulla collettività.
Il mercato deve essere libero di pagare i manager decine di milioni di euro nonostante le aziende siano in perdita, nonostante licenzino migliaia di dipendenti. Il mercato deve essere libero, libero di permettere alle banche di produrre derivati spazzatura, e di proporli liberamente e consapevolmente ai propri correntisti.
Il termine mercato e le sue varie derivazioni sono diventate un mantra, un incantesimo potentissimo, un rimedio onnipotente, che i politici di tutti gli schieramenti hanno proposto come la panacea di tutti i mali. I risultati di trent’anni di questa mirabiliante cura, sono sotto gli occhi di tutti. Gli stati rischiano il fallimento, mentre lo stato sociale è già fallito.
Ma i banchieri europei, e la finanzia internazionale continuano a proporre la loro cura. Meno stato, più mercato. Usare i fondi per salvare le banche a costo di tagliare la specie sociale, la sanità, l’istruzione il walfare.
Ma a quale fine?
Permettere all’uno per cento della popolazione di avere barche sempre più lunghe, case sempre più grandi, disponibilità economiche sempre più esasperate, mentre la restante parte della popolazione deve vivere di stenti e miseria? Senza prospettive? Senza possibilità di miglioramento?
Può una società permettersi di ribaltare il ruolo del mezzo con quello del fine? Perché è questo che sta facendo il capitalismo finanziario, sacrificando il benessere collettivo in nome del sacro mezzo della finanza.
Ma la finanza dovrebbe servire la popolazione; non dovrebbe essere la popolazione a servire la finanza. Ma viceversa. Perché se la finanza non è utile a migliorare il benessere collettivo, allora è bene che fallisca!
E fallisca al più presto.
Poiché in fondo il capitalismo finanziario non ha fatto altro che impoverire l’economia reale, il lavoro, le aziende, la politica, in nome di una minuscola elite, che come un cancro, si è arricchita sulla distruzione e la rovina di realtà produttive e laboriose costrette a cedere il passo alla speculazione.
Questo ribaltone sociale, questa trasformazione del mezzo in fine è vergognosa ed insostenibile.
La metafisica finanziaria, e le sue menzogne sono oramai divenute insostenibili.
Il capitalismo finanziario ha portato l'occidente al fallimento ed il mondo alla catastrofe ecologica!
Per questo sono vicino a chi si indigna.
L’essere umano prima di tutto.
E a chi chiede quali siano le proposte concrete del movimento, invito gli amici indignati a rispondere alla maniera di Protagora: “L’uomo torni ad essere la misura delle cose”. Che siano i capitali ad essere sacrificati per il benessere degli esseri umani, e non viceversa!

martedì 2 agosto 2011

C'è la crisi. Ma ci sono le barche!


Sin da piccolo, trascorro le mie vacanze nella Valle d’Agrò. Negli stessi paesi e nello stesso mare in cui il poeta Quasimodo, passava le sue vacanze estive nella casa dei nonni.
Un tempo le spiagge erano piene di famiglie. Era la fine degli anni ottanta, erano i primi anni novanta. Erano gli anni del boom delle seconde case. E i cortili dei complessi residenziali estivi si riempivano di orde di bambini gioiosi, che giocavano in gruppo. Palle, nascondini, biciclette, gavettoni.
Oggi le spiagge sono vuote, i cortili non ospitano le ludiche evoluzioni di bambini vivaci, e le autostrade sono vuote, perché le famiglie italiane hanno difficoltà a trovare i soldi per pagare la benzina per andare al mare.
C’è la crisi!
Eppure ho visto passare più barche in questi giorni, che in tutti gli anni precedenti messi insieme.
Un tempo vedere uno yacht passare all’orizzonte era un evento. Adesso se ne vedono di continuo. Ed alcuni sono davvero imbarazzanti. Sono tanto grandi da fare invidia a quelle barche che si noleggiano alla modica cifra di 400mila euro alla settimana, già oggetto qualche anno fa dei celebri manifesti realizzati dal partito della Rifondazione Comunista che avevano per titolo: Anche i Ricchi Piangano.
Immagino che molte di queste barchette, il cui costo di un giorno di navigazione corrisponde allo stipendio di dieci anni di un operaio, appartengano a quei Manager, super pagati non per portare risultati, ma per chiedere i contributi statali per mettere in cassa integrazione i dipendenti… Ma questo è un altro discorso…
Poiché nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. Il denaro non si è perso, si è semplicemente trasformato, spostato, delocalizzato. La ricchezza si è spostata. E questa crisi è frutto di una cattiva distribuzione della ricchezza che si è mossa dalle tasche di molti a quelle di pochi.
Non sono un bolscevico. Ma credo che il fine di una società non possa essere il lusso sfrenato per pochissimi, in luogo dei sacrifici e delle rinunce di molti.
Una società, degna di questo nome, dovrebbe essere costituita da un insieme di individui che collaborano tra di loro, con spirito cooperativo, traendone reciproco giovamento. Ma se i vantaggi devono essere ristretti ad una piccola cerchia a discapito di una intera collettività… Allora la società non ha ragione di essere. E rischia di crollare, di non reggere!
Non bisogna essere dei grandi sociologi per capirlo.



mercoledì 29 giugno 2011

venerdì 28 gennaio 2011

Strange Days - Strani Giorni

Le proteste a Tunisi, seguite da quelle di Tirana in Albania. E poi la rivolta dell'Egitto con le strade piene di carri armati assaltati dalla folla, e le tensioni in Yemen. Una strana congiunzione astrale sembra interessare i paesi dell'Africa settendrionale. Volendo colpire ciechi poteri decennali che negano le libertà civili. Senza parlare poi delle tristi vicende e delle miserie che interessano la politica italiana in questi giorni.
Strani giorni. E già. Viviamo strani giorni. La canzone di Franco Battiato sembra proprio quella giusta per questa settimana!

lunedì 10 gennaio 2011

Kerouac, Beat Generation e Buddhismo Zen


Dicembre è stato un mese che ho trascorso viaggiando, On the Road (but overall on the sea), in giro per il mondo. Così ho deciso di dedicare una serie di post a Kerouac ed alla Beat generation.


« Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»
«Dove andiamo?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare »
(Jack Kerouac - On the road)

Questo scambio di battute, che suonano come poetici versi, tra Dean Moriarty e Sal Paradise - in realtà Neal Cassady e Jack Kerouac- ed anche profetici, se pensiamo che Neal Cassady morì nel 1968 camminando senza metà, lungo i binari di una ferrovia messicana, finché non si addormentò e morì assiderato; sono l'emblema di un'intera Generazione, la Beat Generation.
Una generazione inquieta, di cui Kerouac è l'eroe indiscusso. Figlia del dopoguerra Americano, di giovani che, sentendosi in gabbia in una società consumistica che nega ogni forma di possibile individualità, ed usando le Parole di Pier Paolo Pasolini, riesce ad appiattire ed uniformare anche laddove i fascismi avevano fallito, rispondono con la prosa e la poesia del vivere. E vivere è viaggiare per i protagonisti della Beat Generation. Spostarsi più volte lungo l'America. In orizzontale prima, in verticale poi, fino ad approdare in Messico. Al ritmo del jazz. Viaggiare, danzando per il continente americano al ritmo del Bebop. Viaggiare senza meta, ed amare e conoscere. Conoscere gente nuova, nuovi costumi, nuovi stili di vita e fare nuove esperienze e sperimentare.
Viaggiare perché bisogna andare.
Perché vivere è sperimentare, sperimentare tutto. Anche le droghe, purtroppo.
Viaggiare per cogliere il divino negli occhi puri, stupiti, di una giovane indigena messicana. Felice di scambiare una pietra per un orologio al quarzo. Per sentire Dio lungo il transito, nel passaggio, nel mutare dei paesaggi, negli occhi della gente. Nel tempo.
Vi è un fortissimo sentimento religioso dietro l'inquietudine della Beat Generation.
Che troverà risposta nel Buddhismo Zen. Un buddhismo non ortodosso. Che Kerouac e la sua generazione, intenderanno sempre come azione. Perché per Kerouac il buddhismo sarà azione. Azione senza possibilità di mediazione. Azione. E non medit-azione.
Una religiosità estremamente complessa quella della Beat e di Kerouac in particolare, che una volta alla domanda di un giornalista che gli chiese a chi rivolgeva le sue preghiere rispose:<< prego il mio fratellino morto, mio padre, Buddha, Gesù Cristo e la Vergine Maria>>. Aggiungendo poi: << Prego queste cinque persone >>.
Ma Kerouac era davvero Zen?
Lo era nell'azione. Nel comprendere l'unità delle cose. Nel comprendere il viaggio delle cose verso la loro caducità. In quel suo nichilismo attivo, che considera tutto Vuoto, Impermanente. E proprio per questo realmente insondabile, e dunque divino.
Non lo era nella reazione, nell'uso di droghe per calmare le sue ansie e la sua necessità di infinito. Nell'alcol e nella droga, Kerouac non era zen. Perché Il buddhismo è consapevolezza. E lo Zen Presenza e Padronanza di Sè.
Chiudo questo post con una meravigliosa intervista realizzata da Fernanda Pivano, massima conoscitrice italiana della Beat Generation, per Rai Tv. Quando la Rai, faceva ancora la Rai.
Negli occhi di Fernanda, - nella difficoltà di portare fino in fondo un'intervista trilingue, ad un Kerouac che alterna inglese francese e qualche parola di italiano, in un profondo stato di confusione legato all'uso di alcol e sostanze stupefacenti- la consapevolezza della parabola discendente di Kerouac. Ormai divenuto caricatura di se stesso. Lontano dall'Eroe che un tempo
narrò in "On the Road" i sogni e le Ansie di una intera Generazione.